Sala Proiezioni
La pellicola cinematografica
Torino 1923, all’Esposizione internazionale di fotografia ottica e cinematografia compare la pellicola cinema positiva della FILM. Nel 1927 si realizza la negativa (ovvero la copia originaria, mentre dalla positiva si ricavano le copie). Nonostante la forte crisi del cinema negli anni ’20, il lavoro prosegue: si perfeziona il sonoro; dalle pellicole ortocromatiche (non sensibili al rosso) si passa alle pancromatiche. Gli anni ’30 sono favorevoli, con la propaganda fascista che investe sull’industria cinematografica: nel 1937 apre Cinecittà, l’anno dopo il film Amicizia inaugura la Pancro C 5 e subito a seguire la C6, il «negativo italiano».
Nella riorganizzazione del nostro cinema, dopo la guerra, la Ferrania resta una protagonista tecnologica. Nelle sale, prima dei film, dal 1946 al 1965 si proietta La Settimana INCOM, erede dei cinegiornali dell’Istituto Luce, girata su pellicola Cine Pancro C 7. Sono anni fortunati: prima il Ferraniacolor, poi la P30, pancromatica in b/n, utilizzata da esperti direttori della fotografia e nobilitata da registi come De Sica e Pasolini. La stagione del colore finisce presto: nel 1957 l’IFI (la finanziaria della famiglia Agnelli, proprietaria della Ferrania) decide di investire sulla Technicolor Italia, lo stabilimento romano per lo sviluppo e la stampa delle pellicole. Molti tecnici sono dirottati sulla nuova realtà, compreso Giulio Monteleoni, già responsabile del Laboratorio ricerche colore, Ferrania inizia a produrre pellicola Technicolor per i laboratori internazionali.
Gli anni d’oro del cinema (fra i clienti della Ferrania MGM, Paramount, Universal, 20th Century Fox…) si traducono nella fabbricazione di chilometri e chilometri di pellicola, soprattutto per la stampa in positivo delle copie da proiettare (fra i prodotti: la 3M Color 650). Il declino è rapido, a favore della televisione e della registrazione magnetica: chiude la filiale romana dell’azienda (aperta nel 1958 in via Appia, vicino Cinecittà), l’ultimo prodotto cinema è del 1982.
Ciak, si gira
Negli anni ’50 e ’60 si instaura fra la Ferrania e il mondo del cinema, in particolare Cinecittà, uno strettissimo rapporto. Il marchio dell’azienda accompagna la stagione del neorealismo e della commedia sul grande schermo: su pellicola C 7 sono girati Cronache di un amore, il primo lungometraggio di Michelangelo Antonioni, film di Pietro Germi, Giuseppe De Santis e Steno, vari titoli con Totò… Mentre la Divisione cinema professionale dialoga con i produttori e le grandi case di distribuzione, i ricercatori e i tecnici a Ferrania si confrontano con le esigenze dei laboratori di sviluppo e stampa, in piena espansione così come le sale di proiezione. Interloquiscono con la fabbrica della pellicola, spesso recandosi direttamente nello stabilimento, fonici, operatori di macchina, truccatori e – innanzitutto – direttori della fotografia (fra cui Piero Portalupi e Gabor Pogany, che partecipano al progresso tecnologico delle pellicole Pancro in bianco e nero e del Ferraniacolor). Nel 1950 viene realizzato un primo teatro di posa, affiancato a una sala di proiezione, nel quale era possibile effettuare test, collaudare nuove proposte, sperimentare differenti condizioni di illuminazione. In altre circostanze saranno gli uomini della Ferrania a essere presenti sui set cinematografici e a fornire assistenza.
La stessa fabbrica diviene un soggetto di ripresa: il Reparto pubblicità Ferrania cura Lavoro a Ferrania (1962, 28’), di Giulio Monteleoni, con la fotografia di Piero Portalupi e un commento sonoro d’eccezione, una composizione originale di Bruno Maderna, un maestro della musica contemporanea. Per la visionarietà delle inquadrature e per l’uso della luce, il filmato rappresenta un vertice del documentario industriale.
Una curiosità: Alberto Guzzi, tecnico dello stabilimento, sperimenta le pellicole con 8 mm girati a Ferrania, coinvolgendo i ragazzi del posto in spassosi allestimenti. Fra i titoli: Nosferatu 70. De veridica historia ferraniens vampiri! Una sperimentazione che diverrà presto contagiosa tra i dipendenti e famigliari anche nei formati Super 8 e 16mm, andando a produrre a cavallo tra gli anni 60 e 70 svariati corto e medio metraggi amatoriali a tema parodia dei grandi film in circolazione all’epoca. Vampyricon, Per un dollaro in piedi e Tre nel 1500 alcuni titoli.
Hollywood e Matera
Il colore in bianco e nero: la Ferrania racconta con questo slogan la pellicola P 30. Pancromatica con sensibilità di 100-125 ASA, realizzata nel 1958, beneficia della ricerca sul Ferraniacolor, che proprio in quegli anni esaurisce la sua breve stagione: il bianco e nero della P 30 rivela una duttilità e una ricchezza tonale che la rendono la pellicola cinematografica per antonomasia dell’azienda, in grado di misurarsi con le pellicole in b/n dell’americana DuPont (storicamente associata al neorealismo italiano).
Sono diversi i direttori della fotografia e i registi (come Damiano Damiani, Alberto Lattuada, Dino Risi) a prediligere la P30, ma il film che rappresenta internazionalmente la pellicola sarà La Ciociara di Vittorio De Sica, uscito nel 1960. Ferrania, che lancia in quell’anno una grande campagna sul nuovo prodotto, ne sostiene la produzione. Il film, fotografato da Gabor Pogany, ha come assoluta protagonista la Loren. L’attrice aveva esordito sullo schermo nel 1953, in un piccolo film in Ferraniacolor: qualche anno più tardi muta il suo nome da Sofia in Sophia e conquista Hollywood, che la ripaga con l’Oscar (nel 1962) proprio per l’interpretazione de La Ciociara.
Un produttore, un regista e un direttore della fotografia che legano la loro opera alla P 30 sono Alfredo Bini, Pier Paolo Pasolini e Tonino Delli Colli (già direttore di Totò a colori e La città dolente): Accattone (1961), Mamma Roma (1962), La ricotta (1963, episodio di Rogopag), Il Vangelo secondo Matteo (1964), Comizi d’amore (1965), Uccellacci e Uccellini (1966). Il bianco e nero del cinema pasoliniano rappresenta probabilmente il vertice della resa visiva della pellicola della Ferrania. Soprattutto ne Il Vangelo secondo Matteo, girato nei Sassi di Matera, il forte contrasto della P 30 e la saturazione dei neri permettono a Pasolini di trasformare i volti degli attori (non professionisti) in icone, con una estetica molto severa che rifiuta la morbidezza dell’immagine e guarda piuttosto alla pittura.